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Le parole estreme nel tempo del coronavirus

Catastrofe, inferno, eroi, angeli, sacrificio, guerra, fronte…

Siamo continuamente spinti ad utilizzare un linguaggio estremo per descrivere un evento tanto nuovo quanto antico. In questi tempi gran parte dei beni fondamentali che ormai si davano per scontati si rivelano non esserlo affatto. L’impiego di un linguaggio degli estremi consente di applicare categorie di un passato che a tratti si radica quasi nel mito ad un presente che sembra più del solito, non lasciarsi catturare da un’interpretazione. Se ciò che ci si presenta come un fatto, sfugge ad un’interpretazione esauriente, provoca un senso di smarrimento: assisto ad un evento i cui contorni mi sfuggono. Per ridurre la sensazione di spaesamento si ricorre a mappe tanto antiche quanto, di fatto, inaffidabili. Per ritrovare la strada, si affida la facoltà interpretativa a metodi di orientamento approssimativi. L’estremo lessico, aiuta a ridisegnare i confini di ciò che accade entro limiti vaghi ma che paradossalmente infondono un senso di sicurezza, seppur apparente. La parola “guerra” permette di rendere più accettabile la sospensione coatta di libertà che fino al giorno precedente erano ritenute inalienabili. La parola “inferno” permette di esprimere una sofferenza altrimenti indicibile (laddove a mio parere sarebbe piuttosto adatta la parola meno politicamente corretta di “purgatorio”). La parola “sacrificio” è talmente carica di significati diversi, che ognuno si sente autorizzato a buttarci dentro tutto ciò che ritiene più soggettivamente confortante. Da tempo mi sto domandando perché sia in atto un simile estremismo semantico (di cui qualche volta io stesso mi sono servito). Penso che tutto questo sia riassumibile così: siamo incapaci di padroneggiare le parole della fede, le quali sapientemente sanno collocare qualunque avvenimento in relazione ad un orizzonte. Il linguaggio estremo che appartiene al mondo, ci mostra una prospettiva tanto chiara e reale quanto fantasmagorica. Il linguaggio estremo che appartiene alla fede, invece, consola perché consente di contemplare l’orizzonte reale. Nelle parole della fede, “guerra” vuol dire fedeltà accompagnata da una grazia che mi consente di non perdere di vista l’orizzonte. Nelle parole della fede, “inferno” vuol dire privazione dell’amore di Dio, non “situazione che non riusciamo a gestire con le nostre forze”. Nelle parole della fede, “speranza” è raggiungere l’orizzonte da cui nasce la luce, non “concretizzare ciò che io voglio”. Nelle parole della fede “sacrificio” ha senso solo se è un azione inserita nell’agire di Dio. In questo periodo ho ascoltato tanti operatori sanitari e altrettanti malati. Chi ha modo di fermarsi a riflettere su ciò che sta accadendo, non concorda con la retorica impiegata per parlare di ciò che avviene qui. Potrei portare moltissimi esempi per riflettere su questo. Ne riporterò solo due. Il primo riguarda me. Ricevo molti messaggi e chiamate di solidarietà e di sostegno per ciò che faccio in ospedale. In realtà non sto facendo nessun sacrificio (anzi, sono abbastanza negligente nella penitenza quaresimale) ed io personalmente non sono stremato dal lavoro per una ragione tanto semplice quanto banale: in ospedale non sono ricoverati più pazienti del solito e non c’è più personale del solito. Anzi… Semplicemente alcune relazioni sono diventate più sinceramente umane. Certo, la fatica generale di chi lavora qui è aumentata parecchio perché molti operatori sanitari devono imparare cose nuove in poco tempo, perché in termini orari si lavora di più, perché ci sono preoccupazioni che prima non esistevano, perché non si possono avere le stesse attenzioni umane che prima si coltivavano e perché, dal punto di vista clinico si vivono molte più sconfitte che vittorie. Abbiamo un gran bisogno di reimparare cosa significhi ringraziare nel contesto del mistero Cristo. Il secondo esempio arriva da un degente ma è comune a molti qui.

Cosa è la preghiera?

Regaliamo preghiere al chilo, tanti quanti sono i messaggini che spediamo.

Questa è preghiera?

Rivolgo questa domanda come una provocazione. Non è che anche la mite parola “preghiera” è per la maggior parte di noi una parola estrema che ci rassicura, non nell’orizzonte della fede ma nei limiti della ragione in cerca di sostegni dentro un vocabolario tutto sommato mondano? Abbiamo un estremo bisogno di ricomprenderci oranti. Tutto il mondo ne ha bisogno. Le secchiate di preghiere per molti qui sono più nauseanti delle secchiate di cloro. Questo perché è percepita come la banalità che viene detta quando si capisce di non aver più cose da dire. Quando il silenzio del dolore diventa fastidioso, lo si attutisce. Il modo estremo per dire all’altro non che Dio esiste ma che io esisto. Forse che sia necessario passare attraverso il mistero della morte e della sofferenza per ritrovare le parole della fede? Mi piace pensare al nostro ospedale come ad un crogiolo in cui le parole “salute” e “salvezza” brillano in tutta la loro verità. La prima non è per tutti; e, per tutti, comunque, dura poco. La seconda è disponibile a tutti e dura per sempre. Un crogiolo in cui precipitano le parole che danno finte e pericolose sicurezze ma in cui affiorano parole che sono sguardi silenziosi gettati verso un’aurora perenne.

Don Sami, diacono, assistente religioso Ospedale Umberto Parini

articolo pubblicato su Corriere della Valle