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LA SHARI’A DEI TALEBANI: QUANDO LA “STRADA” DIVENTA UNA PRIGIONE

Per comprendere quanto accaduto in Afghanistan tra il 1996 e il 2001 e quanto potrebbe nuovamente accadere, è importante cogliere la distinzione essenziale tra Shari'a e Fiqh:

La riconquista dell’Afghanistan da parte dei talebani e le prime dichiarazioni rilasciate dal loro portavoce Zabihullah Mujahidi hanno riportato alla ribalta il tema della Shari’a, termine del quale spesso si abusa identificandolo, nella percezione comune, con le pene corporali, la pena di morte per lapidazione, il burqa e altre gravi violazioni delle libertà individuali. Non è semplice esplicitare la vastità concettuale della nozione di shari’a, ma occorre tentare di fare chiarezza se si vogliono evitare banalizzazioni e strumentalizzazioni.

Shari’a, in arabo, significa letteralmente “strada battuta verso l’acqua, sentiero, via” e non fa riferimento a un testo scritto di leggi – non esiste alcun documento col nome di “Shari’a” – codificato e fissato in un preciso momento storico,  bensì a un insieme eterogeneo di concetti astratti ritenuti perfetti e immutabili, di natura etico-morale, alla luce dei quali ogni musulmano praticante plasma la propria condotta, nei confronti di Dio e degli uomini, al fine di ottenere la salvezza eterna.

La dimensione astratta e orientativa dei principi shariatici rende però necessaria la loro traduzione in norme specifiche da applicare alla vita concreta delle persone. Questo passaggio dai principi ai precetti è appannaggio dei faqawa (giuristi) che analizzano le fonti primarie della Shari’a – Corano e Sunna (l’insieme dei detti e delle azioni del Profeta Maometto) – e le interpretano alla luce della cultura e della scuola giuridica di appartenenza (solo in ambito sunnita se ne contano quattro che possono divergere tra loro). Da questo esercizio di interpretazione, che si avvale anche di altri strumenti quali “il consenso dei dotti religiosi” di altre epoche e il ragionamento analogico basato su un precedente giuridico, i faqawa giungono alla formulazione del Fiqh, la giurisprudenza islamica, che traduce la Shari’a in singole norme e disposizioni. Giurisprudenza che varia a seconda dei luoghi e che può essere adottata integralmente come legge dello Stato – è il caso di una decina di Paesi tra cui Arabia Saudita, Iran e Pakistan –, regolare solo alcuni ambiti della vita sociale e privata o non rientrarvi affatto in virtù del principio di laicità – per esempio in Tunisia e in Bosnia –. Per comprendere quanto accaduto in Afghanistan tra il 1996 e il 2001 e quanto potrebbe nuovamente accadere, è importante cogliere la distinzione essenziale tra Shari’a e Fiqh: solo la prima è immutabile, poiché di matrice divina, mentre il Fiqh, essendo un prodotto dell’elaborazione umana, è fallibile, quindi discutibile e modificabile.

I Talebani non soltanto adottano un’interpretazione radicale e retrograda della Shari’a fortemente segnata dal tradizionalismo tribale dell’etnia pashtun – componente maggioritaria tra i Talebani –, specie per quanto riguarda la figura della donna, ma dimostrano di negare la distinzione tra questi due concetti assolutizzando l’elemento umano e particolare (l’interpretazione) ed equiparandolo di fatto a quello divino e universale, dando forma a un’ideologia dell’annullamento coercitivo di ogni differente approccio alle fonti della Shari’a che assume una dimensione messianica: estirpare la società corrotta dell’ignoranza ed edificare la società dei “veri” musulmani.

Di fronte al dramma afghano non è dunque la questione della Shari’a in sé a doverci allarmare, ma la sua interpretazione e concreta applicazione. Poiché è proprio l’interpretazione a fare la differenza. Sarebbe tuttavia ingenuo sperare in un cambio di rotta sostanziale da parte del regime. Oggi, come più di vent’anni fa, la “strada battuta” in versione talebana rischia di trasformarsi nuovamente in una prigione per milioni di persone.