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Abbazia della Novalesa: alleanza tra comunità

Il monaco benedettino, padre Michael Davide Semeraro, è il nuovo priore amministratore

Non un commissariamento, ma una sinergia per ridare forza ad una comunità in difficoltà.  Padre Michael Davide Semeraro, benedettino,  fondatore nel 2007 di una di una piccola comunità di tre fratelli, una <domus monastica>   in Val D’Aosta,  a Rhêmes-Notre-Dame a 1750 metri,  da poco più di un mese è il nuovo priore amministratore del monastero della Novalesa, l’antica abbazia benedettina fondata nel 726, in Val Cenischia, vicina a Susa. La comunità di 6 monaci si sta confrontando con una crisi che ha portato al cambio di tre priori in qualche anno.  

Padre Semeraro è un segno della difficoltà che sta attraversando il mondo  religioso?

E’ il segno della grande fatica che la vita religiosa in generale, e la vita monastica in particolare sta vivendo. Cambiare è bello da dire, ma è molto difficile da farsi.

Al di là di motivazioni molto più complesse di questi avvicendamenti, Novalesa si inserisce in questo movimento di fatica che vive la vita consacrata: sentire un desiderio di perseveranza, di trasmissione, soprattutto qui che siamo in una Abbazia dell’Ottavo secolo dove sono passati Carlo Magno, Benedetto d’Agnano, e tanti altri. Ma tutto questo non basta a vivere.  Avere un glorioso passato non è sufficiente né ad assicurarsi un futuro di speranza e neanche per vivere un presente accettabile.

Tutti qui si sono resi conto del passaggio da un priore all’arrivo di un amministratore, anzi di una comunità di appoggio. Di fatto io sono priore amministratore perché canonicamente ci vuole una persona che rappresenti e abbia i mezzi per operare e gestire. La scelta dei nostri superiori è stata quella di non inviare un cireneo di turno che da solo rischiava di soccombere, ma di creare delle sinergie e alleanze tra comunità. Questo è la nostra sfida, avremo anche un capitolo generale su questo tema.

Quindi una piccola realtà che sostiene una molto più antica e strutturata?

Questo è il segno dei tempi.

Non siamo migliori dei nostri confratelli, ma al momento abbiamo a disposizione delle energie per cui li affianchiamo.

Questo è un grande esperimento anche per il nostro ordine. Non abbiamo più giovani e non è più pensabile continuare ad avere una struttura organizzata come ora per ogni monastero.

Se vogliamo sperare, dobbiamo cospirare.

In pratica qual è il suo mandato?

Il nostro affiancamento per ora è programmato, per decreto, per un anno. Una delle ragioni per cui hanno chiesto a noi è anche per la sensibilità europeista ma soprattutto francofila che accomuna le nostre comunità.

Nel decreto si parla anche della possibilità che Novalesa (ci sono tante cose da fare prima) possa essere un luogo condiviso con l’Oltralpe.

Ciò che state vivendo a Novalesa, potrà diventare un modello anche per altre situazioni in futuro?

Io non so se tra un anno sarò ancora qui. O tornerò con i miei confratelli nella nostra Rhêmes, non abbiamo un programma, potremo anche consegnarla ad un altro priore. Metto in conto di rimettere in piedi la speranza di ridare con i miei superiori maggiori la possibilità ai fratelli di compiere scelte libere e responsabili per il loro futuro. Oggi non mi sento di dire quali saranno. Potranno aprirsi nuovi percorsi, l’importante è che siano scelti e non subiti.

Lei ha detto che il primo impegno è ridare forma alla comunità, ma Novalesa non è slegata dal contesto sociale…

La sfida per noi oggi è recuperare un ordine della relazione, ma non tagliare o eliminare la complessità e la ricchezza di quello che si muove intorno a questa Abbazia.  Anche per rispetto alla storia di questo luogo e per rispetto alle persone che in tanti modi intorno all’Abbazia gravitano.

Le persone che bussano alla vostra porta che cosa cercano?

Un passo indietro. Perché una persona diventa monaco?  Ci sono tante risposte, io ne ho sposata una: ci si fa monaci per gestire la propria sofferenza.

Scopriamo che il monastero è un luogo dove possiamo essere quello che siamo, senza vergogna. Accolti da una comunità,  su cui possiamo contare come balsamo, come aiuto, come stimolo a diventare migliori. Ma soprattutto accolti nella nostra sofferenza di uomini. Ciascuno di noi ha una sua sofferenza profonda.

In realtà è per questo che la gente, anche chi nella vita ordinaria non  frequenta la parrocchia, in  un monastero si sente  rassicurato di poter prendersi in carico di ciò che lo affatica. Questo apre delle vie di gioia, perché il peso portato in due diventa più leggero. Si aprono orizzonti di senso, quindi la spiritualità, il silenzio. Le persone che arrivano in un monastero e riescono a vivere questa modalità provano certamente un sollievo.