In questi anni di pontificato Francesco ha dato indicazioni concrete riguardo alla formazione dei futuri presbiteri e alla loro accoglienza in seminario. L’ha detto ai vescovi italiani, in ripetuti incontri, agli educatori dei seminari d’Italia e ai seminaristi stessi. Argomento delicato, quello della formazione: in un momento storico di sterilità e di aridità delle risposte, c’è la tentazione di “prendere tutti”. Ed è in questo frangente che la formazione si fa ancora più delicata, perché necessaria, ma chiamata anche a fare delle selezioni. I formatori dei seminari – mi sento di dirlo per esperienza – non hanno conoscenze e poteri tali da prevenire eventuali crisi o scandali. Si fa ciò che si riesce, nella massima trasparenza e nel dialogo tra l’équipe formativa e il vescovo diocesano.
Tuttavia le sollecitazioni del Papa hanno bisogno di essere tradotte in indicazioni concrete, e ci provo con tre strade. La prima è quella dell’onestà. Ogni giovane o adulto che entra in seminario è chiamato a mettersi davanti a Dio, ai fratelli con cui vive nella Chiesa e nel mondo, a sé stesso, con estrema onestà e semplicità. Nella sua “cassetta dei ferri” serve mettere tutto ciò che lo porta a essere onesto, retto, capace di considerare con attenzione e lucidità ciò che sta facendo. Senza illusioni di alcun tipo, né dettate dal successo, né dal potere o dalla futura carriera ecclesiastica, meno ancora dal ruolo o dal mettersi davanti a tutti, anche solo per presiedere una liturgia. L’onestà di ciascuno impedisce scenografie di cartapesta che si sgretolano col tempo, maschere e paramenti che si risolvono in contrasti esplosivi nel corso della vita. L’onestà è la carta vincente per non essere “doppi”, capaci di sostenere prima una cosa, poi il contrario della stessa, a seconda di come cambia il vento. Nel cuore del seminarista va trovata una trasparenza d’animo che possa mettere in fila, vedere e discernere gli atteggiamenti del cuore e le conseguenti decisioni oneste.
Porrei anche una seconda via da percorrere e la vedo nel riconoscimento della personale fragilità. Quando un giovane entra in seminario rischia di sentirsi “già prete”. Non perché sia presuntuoso, ma perché si deve considerare, e a ragione, la sua fatica a decidere di iniziare quel cammino, lasciando quasi tutto della sua vita precedente, staccandosi da relazioni, anche di lavoro e di studio, che caratterizzavano la sua giornata. Un giovane è in cerca di certezze, ma se queste non sono accolte come dono, ma invocate come diritto e paravento, impedimento al crescere e all’amare, alla misericordia e alla tenerezza, il futuro presbitero è già fermo prima ancora di iniziare la corsa. E non riesce a mettersi nelle mani degli altri, anche di chi gli vuole bene.
Questo è un passaggio delicato della formazione, ma necessario. Finché il seminarista non si fida dei suoi educatori e del vescovo, degli altri preti, della gente, non scatterà nessun tipo di formazione perché si costruiscono barriere, ci si stratifica, si diventa “rigidi”, pensando che gli altri debbano vedere ciò che serve per tagliare il traguardo dell’ordinazione. Chi si fida di Dio impara a fidarsi anche degli uomini e un domani, da prete, proverà a essere una persona affidabile. Nel rito di ordinazione c’è un momento nel quale il candidato, ponendo le proprie mani nelle mani del vescovo, si sente rivolgere la domanda: «Prometti a me e ai miei successori filiale rispetto e obbedienza?». Alla risposta: «Sì, lo prometto», segue la conclusione del vescovo che non è di poco conto: «Dio, che ha iniziato in te la sua opera, la porti a compimento». L’opera di Dio è “legata” con doppio filo a quella promessa. Non perché Dio sia condizionato, ma perché il segno della nostra vita diventa la comunione, il fare un passo indietro perché Dio ne faccia uno avanti verificando sé stessi, nella fatica e nella lealtà, nel confronto col vescovo, con gli altri presbiteri, con la gente. La comunione è un bene grande che presuppone la fiducia nell’azione di Dio dentro la Chiesa e la storia.
C’è, infine, una terza strada necessaria ed è la vita fraterna. Se il seminario può costituirsi come una casa, una famiglia, nella quale si costruiscono le relazioni, mi convinco sempre di più che il tirocinio che si compie in seminario serva come prova generale per le relazioni, autentiche e oneste, che si andranno a costruire nella Chiesa e nel presbiterio, col vescovo, con gli altri preti, coi laici e i consacrati che si incontreranno. Mai da soli, però. Oggi la solitudine, seppur necessaria e da desiderare come momento di riflessione o di pausa, fa paura. Il prete esiste e vive, si arricchisce e si confronta, dentro un presbiterio e dentro la vita di una comunità. Egli ha bisogno di tutto e di tutti, dal Signore che dà senso al suo essere e al suo agire, ai fratelli, giovani e adulti, ragazzi e anziani che serve, con i quali vive e ha a che fare ogni giorno. La vita fraterna in seminario è un’ottima occasione per volersi bene sul serio e aiutarsi a crescere, nell’ascolto di Dio e degli altri.
Onestà, fragilità, vita fraterna sono atteggiamenti che insegnano a tutti, giovani in cammino, preti di ogni età, a mettersi davanti a Dio, agli altri e a sé stessi. E che non ci sarà alcun prete se, prima, non cresce l’uomo e il discepolo che c’è in me. Sapere che siamo uomini onesti, cioè veri, discepoli fragili, cioè aggrappati a Dio, e preti che vivono dentro la Chiesa, sono carte vincenti che ripropongono il servizio ministeriale non come una faccenda per supereroi, sempre più pochi e stanchi, ma come un servizio nella Chiesa, a Dio e all’uomo. Un servizio che ci fa essere contenti. Perché annunciare il Vangelo dà sempre gioia.
(fonte Vita Pastorale)