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Luoghi di grande sofferenza

Chi attraversa la soglia delle carceri, luogo di estrema marginalità, non può ancora pensare che questo luogo di “periferia esistenziale” sia una terra senza riscatto, senza speranza, senza rinascita, senza cambiamento.

Ricordatevi dei carcerati, come se foste compagni di carcere» (Ebrei 13,3). Il carcere è un luogo di grande sofferenza, dove i ristretti vivono l’amara esperienza della solitudine e dell’abbandono. È “un ospedale da campo”, dove i molti ristretti hanno bisogno di essere guariti, accolti, incoraggiati a riprendere in mano la loro preziosa vita, molte volte distrutta da scelte sbagliate. Ma il carcere è anche il luogo dove la società per vivere in sicurezza, dopo aver prodotto tanta miseria, scarica lì le povertà di uomini e donne, che hanno commesso errori e condannati senza appello. Nei nostri circa 200 istituti penitenziari, da sempre la Chiesa è ben inserita per accompagnare un popolo che tende le mani, non solo per aiuti materiali, ma anche per potersi riconciliare con Dio e la società.

Chi attraversa la soglia delle carceri, luogo di estrema marginalità, non può ancora pensare che questo luogo di “periferia esistenziale” sia una terra senza riscatto, senza speranza, senza rinascita, senza cambiamento. Non possiamo chiudere le porte della speranza a tutti coloro che vivono in celle buie, dove si raccolgono lacrime di disperazione e di emarginazione.

La Chiesa, attraverso i cappellani, il mondo del volontariato, le attenzioni di molti, i continui messaggi e le visite di papa Francesco nei diversi istituti, ci ricorda che solo se abbiamo il coraggio di offrire speranza, può rinascere il futuro per tutti coloro che desiderano riprendere un cammino di inserimento nella società.

Non si può conoscere veramente e capire nelle sue contraddizioni il carcere, se non entriamo e incontriamo coloro che ci raccontano le loro storie di povertà e di disagi. Non possiamo comprendere questo luogo se siamo solo dei visitatori curiosi di turno. Dobbiamo, invece, attraversare questi luoghi in punta di piedi, mettendoci in ascolto, cercando di liberare la nostra mente da facili giudizi e pregiudizi che ci portano a condannare chi ha sbagliato. 

Dalla mia trentennale esperienza, come “prete di galera” o come mi piace chiamare il cappellano “ambasciatore della misericordia” non mi sento di identificare il carcere come “terra di disgraziati” una periferia emarginata, ma un luogo dove si può ripartire, perché la speranza non può essere seppellita tra le sbarre. Il prossimo Giubileo della Chiesa ha come slogan Pellegrini di speranza e noi tutti, entrando in questi luoghi di solitudine, viviamo il nostro pellegrinaggio di vicinanza verso i ristretti per alimentare in loro la “speranza del Vangelo”, quella speranza che non delude.

Come annunciare questa speranza nei nostri istituti? La funzione di noi cappellani e operatori tutti, con la nostra capillare presenza negli istituti penitenziari, è quella di essere “sentinelle” che annunciano un’alba nuova. E attraverso la nostra azione pastorale rendere più umane le carceri. Solo trasformando questi luoghi di pena, rendendoli più rispettosi della dignità della persona, avremo un vero recupero del ristretto.

L’attività del cappellano fa sì che la sua azione pastorale sia di conforto per i ristretti, per non farli sentire né isolati né abbandonati. Essa consiste in colloqui personali, celebrazioni, catechesi, attenzione ai più poveri, rapporto con i familiari, disbrigo pratiche dei documenti e aiuto materiale… Da non dimenticare, inoltre, anche l’importante apporto trattamentale per i detenuti, quale lo svolgimento delle diverse attività lavorative e corsi di formazione professionali.

Il servizio che gli operatori svolgono tra le mura delle nostre carceri è da considerare come un’opera di accompagnamento e di rinascita della persona. La pena detentiva, anche se è privazione della libertà personale, deve offrire opportunità di recupero e rappresentare una vera riabilitazione sociale. Il luogo della pena, dove si dovrebbe vivere una vera attenzione all’uomo, potrebbe diventare un vero “percorso di riscatto” che offre ai detenuti “un orizzonte di speranza”. In questo difficile tempo, l’emergenza sanitaria ha contribuito a fare emergere nei nostri istituti, i punti deboli, le strutture fatiscenti, la mancanza di personale, il sovraffollamento, gli spazi angusti e a volte malsani. I malati psichici, molto spesso abbandonati per mancanza di idonei operatori, la difficoltà ad avere contatti con i familiari, la chiusura totale dei reparti, ha causato in questi luoghi di pena una vera e propria tempesta, amplificando ancora di più l’emarginazione e la solitudine di queste povere persone.

Il cappellano è una figura fondamentale e riconosciuta negli istituti, e chi entra tra le mura per toccare la sofferenza deve essere una persona formata e informata su questa pastorale di “periferia”, perché questi luoghi sono pieni d’insidie e richiedono grande prudenza. Paolo VI, parlando della figura del cappellano, ebbe a dire: «Il sacerdote chiamato a questo difficile ministero, ha bisogno di una preparazione e una competenza tutta particolare; lo esige il suo stesso apostolato». Anche se a volte non siamo capaci di dare risposte immediate, il nostro compito di cappellani è ascoltare il dolore imprigionato con sincerità, pazienza, passione e umiltà.

La nostra presenza, il nostro delicato ministero deve educare anche quelle persone che vorrebbero lasciare marcire nelle carceri chi ha commesso gravi reati. La cultura evangelica non è imprigionata in questa mentalità vendicativa, ma vuole scommettere sul recupero della persona. Solo così può crescere una società, diventando più solidale. Anzi, una società è civile solo se è solidale. Visitare i carcerati significa, per noi tutti operatori, presentare con gioia il vero volto del Signore, che è un Dio ricco di misericordia. Ma, soprattutto, siamo chiamati a essere ponti con la società, costruendo percorsi di rinascita e di inclusione. Non possiamo abbandonare ai bordi delle strade coloro che fanno fatica a rialzarsi. Sono gli anelli più deboli da sostenere.

Già da tempo, anche se non è facile, si sta costruendo una nuova cultura della giustizia per coloro che hanno commesso reati, meno carcere e più pene alternative. E più spazio alla giustizia riparativa, «da non intendersi come “strumento di clemenza”: piuttosto “giustizia che aiuta il trasgressore ad assumere le sue responsabilità nei confronti della vittima e nei confronti della comunità attraverso l’incontro e il dialogo”» (Ministra Cartabia).

Queste mie riflessioni siano d’incoraggiamento a non aver paura a tendere una mano fraterna a coloro che vogliono rialzarsi offrendo una possibilità di riscatto e sostenendoli nella ripartenza in piena legalità nella loro vita futura, per essere sempre di più noi tutti “pietre vive” di una Chiesa illuminata dal Vangelo, che parla al cuore di ciascuno di noi.

da Vita Pastorale di Ottobre