L’ultimo appuntamento di legislatura della presidente della Commissione europea, Ursula von
der Leyen, davanti al Parlamento UE a Strasburgo per il discorso annuale sullo “Stato dell’Unione
Europea” cadeva in un momento particolarmente difficile per il continente. Sullo sfondo
incombevano temi importanti: dalla guerra senza fine in Ucraina al rischio annunciato di una
ripresa pandemica; dalle non incoraggianti previsioni economiche per l’UE che rischiano di
rallentare la politica ambientale alle mancate risposte ai flussi migratori e via seguitando.
Non semplificava nulla la prospettiva delle ormai imminenti elezioni per il Parlamento europeo il
prossimo giugno, con una campagna elettorale che sta avvelenando ogni giorno di più il
confronto politico, mettendo a dura prova anche coalizioni di maggioranza al loro interno, tanto
a Strasburgo che a Roma.
Dall’esito di quella consultazione elettorale dipenderanno anche le sorti dei futuri Vertici di
Bruxelles, primo fra tutti quello della presidenza della Commissione europea per la quale Ursula
von der Leyen sarà una probabile candidata, ma questa volta nelle mani del Parlamento europeo
e non solo, come nel 2019, del Consiglio dei Capi di Stato e di governo.
In un simile contesto il discorso sullo “Stato dell’Unione Europea” non poteva che essere un
esercizio di equilibrio tra i risultati raggiunti nei quattro anni di guida alla Commissione e le sfide
future, tra l’orgoglio in parte fondato per quanto realizzato e gli impegni e le speranze per
risollevare l’UE dalla minaccia di declino.
Sebbene un po’ retorico e prolisso, il discorso meriterebbe una lettura integrale (reperibile per i
volenterosi anche sul sito www.apiceuropa.com), ma può essere utile qualche primo rilievo.
A cominciare dalla tenacia nel riproporre coraggiose politiche ambientali, ma accompagnandole
con attente valutazioni sulle compatibilità economiche e sociali (anche perché la “piena
occupazione” annunciata è ancora lontana) fino alla necessità di rilanciare la competitività
europea chiamando in aiuto Mario Draghi, tornato in pista anche per futuri altri incarichi, con il
governo italiano a “fare buon viso a cattivo gioco”.
Confermato il sostegno all’Ucraina, ma senza lasciare intravvedere nuove iniziative diplomatiche
che portino l’UE al centro del confronto politico con gli alleati, con appena un accenno di sfuggita
alla “sovranità” europea; prudente ma meno passiva che in passato a proposito della
competizione con la Cina, preparando una svolta verso una più forte apertura nei confronti
dell’India per una futura “via del cotone” in gara con la “via della seta” cinese.
Sul versante internazionale ha guadagnato un po’ di terreno anche il ruolo dell’Africa, il suo
sviluppo futuro e il partenariato con l’UE, con un occhio al problema dei flussi migratori, tema sul
quale Ursula lascia molto perplessi quando indica tra le soluzioni l’accordo con la Tunisia, i cui
risultati vanno ad arenarsi a Lampedusa invece di contenere le partenze dei migranti, come era
nel disegno del governo italiano nell’azzardata complicità con il premier ungherese, Viktor
Orban.
Dall’insieme del discorso si ricava l’impressione di un’Unione a metà del guado, senza una guida
autorevole e nuove regole per affrontare le sfide del momento. Lo dimostra anche il tono tiepido
a proposito di una revisione dei Trattati, dove si annida la trappola del voto all’unanimità,
nonostante l’ambizioso rilancio della dinamica degli allargamenti verso i Balcani, l’Ucraina e la
Moldavia, come se questi si potessero fare a Trattati costanti senza rischiare di portare l’Unione
al collasso.
Anche per questo a molti l’appello a Mario Draghi sembrava la speranza che “si faccia tutto il
necessario”, confinando che chi ha salvato l’euro dia una mano – e forse qualcosa di più – a
salvare anche l’Unione Europea.